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Gravity
Gravity - Usa, 91'
Regia: Alfonso Cuarón
Con: George Clooney, Sandra Bullock
Dai tempi di 2001: Odissea nello spazio, e forse anche prima, il vuoto dell'universo ha sempre attratto la fantasia dei registi di ogni parte del mondo, che ne hanno colto gli innumerevoli sottotesti filosofici per sviluppare riflessioni sempre nuove sull'uomo e il suo destino (oltre a Kubrick, pensiamo anche ad altri autori di prima grandezza come Tarkovski e Herzog, solo per fare due nomi). Quest'anno è il turno di Cuarón, che usa lo spazio come metafora del lutto, e lo fa col suo solito stile: scene d'azione mozzafiato, continui virtuosismi tecnici, e profondità di riflessione (si veda a proposito I figli degli uomini). La storia è semplice: due astronauti vengono travolti da detriti spaziali e si ritrovano a dover cercare un modo per salvarsi dalla deriva cosmica. E mentre loro fluttuano nel vuoto, il regista messicano si diverte (e si vede) a danzare con loro: anche la macchina da presa è sospesa e gira libera e leggera tra tute spaziali, astronavi e paesaggi mozzafiato della Terra vista dallo spazio, con quel gusto per le inquadrature lunghe e complesse che Cuarón ama (e che ci fa amare, al di là della loro talvolta dubbia utilità). Cinepresa che non si dimentica però nemmeno di scuotersi violentemente ogni volta che sciami di detriti consegnano al pubblico una nuova sequenza d'azione, col merito di non far mai perdere allo spettatore la cognizione di cosa stia succedendo sullo schermo (cosa da non dare poi tanto per scontata, da quando Michael Bay e i suoi epigoni hanno lanciato la moda di riempire le loro scene di tante e così brevi inquadrature da rendere l'azione spettacolosamente confusa e incomprensibile). Insomma, come film di intrattenimento Gravity funziona benissimo. È sul sottinteso metaforico che il film inciampa. Perché, purtroppo, non ha nulla di sottinteso, e a metà film Clooney ci spiega parola per parola cosa stiamo guardando: la storia di Jodie Foster che ha perso la figlia e ora deve trovare il coraggio per superare il dolore. O, parafrasando la scena finale, che in cinque minuti riassume tutto il film, una volta che si è toccato il fondo bisogna risalire e rialzarsi. Peccato che così esplicitata si appiattisca su un unico livello quella richezza di significati che l'ignoto spazio profondo avrebbe potuto donare al film. Cuarón ha così perso l'occasione per accodarsi a Kubrick, Tarkovsi, Herzog e gli altri, e Gravity rimane "solo" un film di fantascienza. Di ottima fantascienza, però: ce ne fossero di registi col talento di Cuarón, capaci di creare prodotti di intrattenimento di questo livello. Nota conclusiva sul 3D del film: inutile.
Per la redazione Marcello Bonini
- Venezia 70.
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