In occasione della quinta edizione di BilBOlbul, Flashfumetto ha intervistato il grande maestro del fumetto argentino José Muñoz, cui proprio nell'ambito di BilBOlbul è dedicata la mostra Come la vita, visitabile al Museo Archeologico di Bologna fino al 10 aprile 2011.

Abbiamo parlato della sua storia artistica e personale, del suo legame con l'Italia e del significato stesso del linguaggio fumettistico e dell'arte dell'intrattenimento.

- Josè Munoz si forma alla Escuela Panamericana de Arte, dove impara il fumetto da Alberto Breccia, però studia anche pittura, scultura... Cosa l'ha colpita del linguaggio fumettistico e l'ha spinta a decidere di lavorare nel fumetto?

Il modo di narrare in un flusso di disegno accompagnato da parole che raccontano una storia da una vignetta all'altra mi ha conquistato da quando a sei anni ho visto i lavori della Disney del momento, e poi attorno ai nove/dieci anni sono stato catturato dal fumetto d'avventura scritto da Hector Oerstheld e disegnato da Hugo Pratt e Solano Lopez nella rivista Mister X. Hugo Pratt è stato la mia prima grande folgorazione e tuttora in qualche modo vivo di quella folgorazione prattiana avuta quando avevo dieci anni. Io ho visto in quei disegni di Sgt. Kirk come le pennellate potevano essere delle grafie dell'anima. Certo, non pensavo queste cose a nove anni! Ero conquistato dalla forma, dagli spazi giusti tra una pennellata e l'altra, da come questi colpi di inchiostro sostenevano una schiena, da come l'asprezza di una roccia era data da linee morbide grazie a chissà quale magia del pennello prattiano. E inoltre le storie erano d'eccellenza, scritte da Oesterheld, e allora io sono stato posseduto da questa eccellenza e diciamo che ancora ci vivo comodamente dentro.

- Alle Escuela Panamericana tra l'altro insegnava anche Pratt, se non sbaglio...

Pratt ha smesso di insegnare proprio l'anno in cui sono arrivato io, e io ho dovuto "accontentarmi" di un altro genio, che era Alberto Breccia.

- Poi negli anni Settanta lei parte per l'Europa e va in Gran Bretagna, Spagna, Italia ovviamente...

In Italia sono arrivato nel settembre del '74 con otto pagine di Alack Sinner.

- E quindi è entrato in contatto con tantissime culture artistiche e fumettistiche diverse. In che modo queste culture hanno influito sul suo modo di pensare il fumetto?

Diciamo che la scuola di Buenos Aires è stato il mio nocciolo centrale, però io vivevo e leggevo quelle cose a Buenos Aires ma in quel momento c'era la grande industria dell'intrattenimento comico di qualità nordamericano, e poi la grande pattuglia di disegnatori e scrittori italiani emigrati in Argentina nel '48/'49, perché in quel momento c'era la Editorial Abril, che era stata fondata una decina di anni prima da un fuoriuscito italo-ebreo, Cesare Civita, che era dovuto scappare dalle leggi razziali di Mussolini e si era stabilito negli Stati Uniti e poi trasferito a Buenos Aires. E così lui ha importato un "savouir faire" collettivo, con tutto questo gruppo di veneziani che si sono mescolati con i cileni del Cortijo, con l'uruguayano Alberto Breccia, con qualche argentino, e si è creata questa scuola cosmopolita del fumetto di Buenos Aires, che ha avuto un ruolo centrale nel campo dell'intrattenimento popolare negli anni Quaranta e Cinquanta, fino alla nascita e allo sviluppo dell'impero televisivo, che ha cancellato parecchie delle nostre possibilità commerciali.

In Argentina alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta era quasi impossibile pensare di vivere disegnando fumetti, era sparito il fumetto come merce, perché la casa editrice Frontera, dove sono andati Oerstheld, che l'ha fondata, e tutti i disegnatori della rivista Mister X, faceva quello che si chiama "fumetto d'autore". Che come definizione è strana, con le parole bisogna aver cura, perché poi allora bisognerebbe parlare anche di poesia d'autore, visto che ci sono poeti che non sono autori. Insomma, è scivoloso questo meccanismo delle parole, però accettiamo questa storia del "fumetto d'autore" perché il fumetto in quel caso era espressione di un desiderio avventuroso, di una ricerca di eccellenza, non condizionata dal fatto di doverci vivere, dopo, con rispetto parlando, le riproduzioni stantie e senza vita di vignette o di storielle da tre soldi raccontate malamente e rapidamente per sopravvivere. Allora era sparita tutta la fascia più ammirevole dell'intrattenimento fumettistico argentino. Negli anni Quaranta avevamo la Radio, il Peronismo, il Tango e il Fumetto. Poi il fumetto, sia satirico e comico che avventuroso e magico è sparito un po' dal registro commerciale, e allora noi siamo rimasti un po' all'addiaccio per anni.

- E diceva che è arrivato in Italia nel '74...

Sì, dopo due anni di Inghilterra e dopo aver avuto una chiacchierata con Hugo Pratt che nel '73 a Parigi mi ha detto: "José, nessuno poteva fare quello che tu stavi tentando di fare nel '63 quando io ancora dirigevo la rivista Mister X. Quello che invece stai facendo ora obbligato dalle leggi del mercato va bene, ma non ha una caratteristica identitaria, lo possono fare in tanti". Io al tempo ero obbligato a seguire una serie di linee-guida, ero un lavoratore sensibile, un trafficante di sentimenti cresciuto negli anni con inquietudini e problemi artistici, con delle pretese per cui alcuni mi hanno quasi rimproverato, in certi campi del fumetto rassegnati alla riproduzione meccanica di macchie e cose. Io sono stato spesso combattuto per ragioni sbagliate e accettato per le giuste ragioni. Io so che nel mio percorso di lavoratore, cosmopolita e viaggiatore ho lasciato dei buoni semi in tanti ragazzi e ragazze. E sono semi all'altezza di quelli che hanno fatto germogliare me.

- Tra l'altro gli anni Settanta, in Italia, erano un grande momento per il fumetto...

Era buonissimo! C'era uno spazio immenso per fare fumetto d'autore, accettando questa definizione convenzionale. Noi siamo arrivati con le prime pagine di Alack Sinner, non riuscivamo a farle vedere, poi siamo riusciti a farle vedere a Oreste Del Buono attraverso Marcello Ravoni, un italo-argentino che dirigeva l'agenzia Quipos e che è stato molto solidale con noi all'inizio. Lui ha proposto Alack Sinner a AlterLinus ed è stato immediatamente preso, e Del Buono era meravigliato da questa investigazione sul tessuto contemporaneo, dalle combutte narrative e criminali fra alta politica, alti affari, medi criminali, bionde finte e fatali, soldi pubblici rubati... insomma, niente di originale. Lo abbiamo piazzato lì con la scusa del giallo noir, entrando però nella scia della grande investigazione antropologica, sociale e politica del giallo alla Chandler, alla Hammett. E ci siamo messi con molta soddisfazione sulla scia di questa eccellenza, in modo da narrare cose interessanti, cose che avessero anche a vedere con le nostre opinioni politiche, con i nostri pareri e sentimenti. Alack Sinner in un certo modo ha continuato a darci insegnamenti. E' stato un vero dialogo tra amici.

- C'è anche quella storia famosa in cui intervenite direttamente nell'intreccio...

Sì, a questo proposito un nostro amico ci ha rimproverato dicendoci "Siete entrati troppo presto in quel mondo che stavate costruendo". Sì, può essere, ma adesso col senno di poi dico che siamo entrati quando abbiamo sentito il bisogno di entrare, dopodiché non ne siamo più usciti. Questo non vuol dire che dobbiamo comparire in tutte le vignette. Persino nell'ultimo Alack Sinner che abbiamo fatto cinque anni fa, dove lui è ultrasessantenne, nonno e un po' sportivo, ha smesso di fumare... lo stiamo portando fuori dal romanticismo noir. Alack Sinner vive in noi e se non abbiamo la possibilità adesso di raccontare storie che possano interessare a lui allora restiamo in stand-by.

Tornando a quegli anni dell'esordio italiano, poi l'anno seguente è andato benissimo anche in Francia, perché era uno spazio che mancava all'interno del fumetto di intrattenimento colto illustrato. In Francia c'erano gli eccellenti Tardi e Manchette che stavano facendo un lavoro straordinario in questa ambientazione gialla/noir con il loro Griffu. Manchette era un giallista ultrapoliticizzato, ma nel senso francese, buono del termine. Eravamo molto armonici: addentrandoci nei testi di Manchette e vedendo i disegni di Griffu ci sentivamo quasi fratelli, perché c'era lo stesso tipo di rabbia descrittiva, il piacere di descrivere la città, che nel caso di Tardi è Parigi... io Tardi lo sento come un fratello di latte.

E in quel momento c'erano loro in Francia e qua nel fumetto a quel livello non c'era niente; allora abbiamo trovato un buono spazio che abbiamo immediatamente occupato e quello spazio ha iniziato a essere frequentato dalle nuove leve che apparivano nell'Italia del fumetto in quel momento, come i vari Mattotti e Igort. Siamo stati fortemente legati a varie tribù, per esempio con la tribù di Frigidaire e Il Male ai tempi di Sudor Sudaca, con la tribù di Harakiri in Francia, con Wolinski e Charlie Mensuel, gruppi di persone che lavoravano intensamente. Allora Carlos [Sampayo, n.d.R.] e io andavamo e venivamo coi nostri fogli e foglietti, deliziati dalla possibilità di vivere di una cosa che ci piaceva sempre più fare, perché vedevamo dei progressi: Alack Sinner cominciava a dire le cose giuste, cominciava ad avere i tratti giusti, grazie ala prepotenza del nostro lavoro, e lavoravamo lì perché avevamo trovato un filone, avevamo percepito intorno a noi, oltre all'accordo della visione politica, anche un accordo con l'intensità della nostra ricerca di sperimentazione nel campo del fumetto.

- A questo proposito, ho trovato una sua frase che mi ha colpito molto in una recente intervista che ha rilasciato all'Unità: "Anche le idee migrano e crescono sui linguaggi mescolati, sui deliri narrativi che ti fanno tollerare la vita. Sono le idee che ci pensano, ci guidano, e le storie sono come coperte per non restare all'addiaccio nel nostro peregrinare per il mondo"

Sono quasi totalmente d'accordo [sorride]. A proposito delle idee che ci guidano e ci inventano, c'è da dire che ci siamo anche noi che siamo autori delle idee, c'è un dialogo; infatti vedi che il fervore creativo del mondo ci comprende.

- Infatti mi colpiva questo aspetto protettivo e difensivo delle idee e delle storie. Però stavo ragionando sul fatto che le storie hanno anche un ruolo di "attacco", quando si parla di "battaglia culturale". E questo secondo me lei lo dimostra in molti dei suoi lavori.

Parlando di fumetti, i burocrati di quarta categoria, di provincia, distratti, persi dietro le ragazze ci possono considerare forse degni di un almanacco e un caffelatte, perché sono degli ignoranti. Il fumetto, come accade in altre aree, può soffiare l'immenso o riempirti di detriti, dipende. Dipende da che vento soffia, se è il vento dell'impegno, del talento, dell'emozione e del lavorare bene come ci hanno insegnato i maestri. Nelle cime tempestose dell'arte alta così come nelle altezze medie, intessere storie, proteggerci quando siamo all'addiaccio è un grosso intrattenimento. Intrattenimento è una parola che molti maltrattano perché non la sanno pronunciare, non sanno che cosa vuol dire, secondo me. Questa parola vuol dire che noi ci teniamo stretti gli uni agli altri scambiandoci storie. Grandissima parola! Che altro c'è se non intrattenerci aspettando che venga la Parca e ci porti via?

- Per concludere, ci vuole lasciare un messaggio per i ragazzi iscritti al nostro sito?

Quello che vi auguro è che siate degni del dono che le circostanze e i vostri desideri vi hanno dato, e cioè il desiderio di esprimervi attraverso la creazione di mondi disegnati e scritti. Parlando di intrattenimento, avete ricevuto un grandissimo regalo e speriamo che vi piaccia.


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A cura di Alessandro Diele (8/3/2011)