di Daniele Barbieri

Esiste un piacere della scrittura che traspare dalle pa-role stesse di uno scrittore; un piacere della scrittura che emerge nel piacere della lettura così come emerge il piacere dell’altro in un contatto amoroso. E quando la scrittura non è scrittura di parole, ma di immagini, questo “incontro di pia-ceri” tra autore e lettore prende un aspetto ancora più primi-tivo, più profondo, talvolta più inquietante. Scomparsa la me-diazione intellettuale della parola, la mediazione tecnica della scrittura a stampa, il segno di colore trasmette, attra-verso la propria forma, le tensioni stesse della mano che l’ha prodotto, lo stesso godimento sensuale del disegnatore di fronte all’immagine che si sta formando, ai colori che si stanno impastando o giustapponendo, alle linee che scorrono, fluiscono...
Pensate alla vostra mano che costruisce un piccolo uni-verso di sensazioni visive; un frammento di realtà molto più ricco di significato di qualsiasi frammento di realtà che ap-partenga alla realtà quotidianamente vissuta. Più ricco perché destinato ad un’attenzione enormemente maggiore da parte di chi lo guarderà; più ricco perché chi lo guarderà saprà riconoscere - almeno in parte - le sensazioni e le emozioni di voi che lo state creando.
Poiché questa realtà sta uscendo da voi, è inevitabile che sia piena di voi, della vostra cultura, del vostro mondo di desideri e piaceri, dei vostri amori e delle vostre repulsioni; ed è inevitabile che sia piena del rapporto che avete con il vostro strumento di lavoro, il pennino, il pennello, il pastello, la matita, la carta o la tela. Nessuno strumento è indifferente per chi lo adopera, e non solo perché il segno che ogni strumento produce è differente da quello di tutti gli altri. Gli strumenti sono differenti anche perché si adoperano in maniera differente: dovete essere delicati con uno ed ener-gici con un altro; con un terzo sapete che, poiché vi piace troppo, avete bisogno di molto autocontrollo, per evitare che vi prenda troppo la mano; un altro ancora lo tenete per le oc-casioni particolari, non solo perché il suo segno è tanto adatto a rendere quelle situazioni, ma anche perché il modo di adoperarlo è esattamente quello che vi mette nella disposizione d’animo che ci vuole per fare quella certa cosa.
E che poi ne escano immagini in cui i vostri lettori tro-veranno echi di altri autori, stili e correnti della pittura, dell’illustrazione, del fumetto, be’, questo è naturale come il fatto che le parole che adoperiamo per comunicare siano già state utilizzate da milioni di altre persone. Ma solo noi le stiamo utilizzando per comunicare quel particolare messaggio. Quelle parole e quelle immagini ci hanno formato, ci hanno co-stituito, e hanno formato e costituito anche i lettori: sono perciò la merce di scambio stessa, il veicolo stesso della co-municazione. Sono la forma dell’immaginario di tutti, all’interno del quale ogni autore scava percorsi nuovi e im-prevedibili.
Credo che la metafora dello scavare sia particolarmente adatta per l’opera di Lorenzo Mattotti. C’è una superficie delle cose che cambia con lo stesso mutare delle stagioni, che si evolve con estrema rapidità; una superficie che negli anni che ci circondano porta le forme di una frenesia della comuni-cazione informatizzata, le forme di un’estetica leggera usa-e-getta, le forme della moda. Questo non è un giudizio di con-danna; in coscienza, non possiamo condannare più di tanto l’atmosfera di cui quotidianamente ci nutriamo. Ed è, inevita-bilmente, anche la stessa atmosfera da cui Mattotti prende le mosse. Eppure, persino creando illustrazioni di moda, il per-corso che Mattotti scava nel costruirle ci porta verso un mondo di sentita e partecipata materialità, un mondo di sensualità interiore, di quel rapporto con le cose che riusciamo a vivere solo costruendole con le mani, solo attraversandole con il nostro corpo.
Un mondo, quello evocato da Mattotti, in cui una grande natura e una grande cultura si ritrovano ad essere la stessa cosa, non mescolate dunque, ma identiche - come, per un qual-siasi europeo colto, l’immagine della luce estiva del sole tra le foglie è inscindibile dalle rappresentazioni che ne ha fatto Renoir; perché lo stesso nostro immaginario della natura si è costruito nella nostra cultura, e i poli, in verità, non sono due, ma uno solo.
Attraverso il piacere del suo disegno, attraverso l’amalgama dei pastelli a olio, o attraverso la linea sottile e graffiata del pennino, Mattotti conduce il suo lettore à rebour, percorrendo una strada di leggera malinconia e susur-rata ironia. Lo porta a ritrovare strani incubi da fantasie infantili, a recuperare etnie e costumi e riti arcaici, magari mai esistiti nelle storie ufficiali, ma quanto mai esistenti nel profondo delle storie interiori, o nella storia dell’immaginario di tutti. Favole per adulti che sono stati bambini, favole per una cultura che ha un passato mitologico e, nonostante tutto, ancora ben vivo.
A questi miti interiori appartengono i topoi di Mattotti: l’uomo che corre, figurazione del perdersi nella vivezza dell’emozione, l’uomo che guarda, figurazione della contempla-zione meditativa, la maschera o il personaggio-maschera, imma-gini del contenuto profondo del rito, che, uscito dalle regole che lo incanalano, arriva a noi nella sua profonda enigmaticità e con il suo carico di inquietudini. Il sogno non è che un momento, un modo tra i tanti per l’emersione del mito.
Non è certo per caso che l’immaginario visivo di Mattotti è cresciuto attraverso il fumetto, anche quando è poi arrivato molto lontano da questo. Il fumetto è il linguaggio moderno del racconto del mito, dotato ancora, per giovinezza e per contingenze storiche, dell’ingenuità e della leggerezza del mito. E’ un linguaggio di racconto, e non solo di immagini, un linguaggio che pretende che ciascun segno delle sue immagini racconti, evochi vicende, emozioni, passioni. Quanto di più lontano si potrebbe immaginare da molte delle astrazioni con-cettuali su cui si fonda buona parte della pittura degli ultimi anni, anche se pronto ad impadronirsene, quando utili per i suoi scopi.
Questa dimensione di mitologia narrativa sembra essere in Mattotti il perfetto corrispondente del godimento materiale del segno che illustra. La situazione raccontata accresce di significato, di emotività, gli stessi segni del disegnatore - mentre quei segni la definiscono, la costruiscono, la rendono viva. Il godimento del disegnare è un godimento del raccontare - una miracolosa affabulazione materica.
E’ la luce a congiungere mito e matericità nelle immagini di Mattotti. Ora chiara ora luminescente nell’ombra, ora netta e tagliente ora diffusa, la luce ha sempre il carattere della luce di un evento: appare infatti con la presenza della luce che precede o segue immediatamente un temporale, come la luce di una rivelazione improvvisa, di un ricordo, o la luce plumbea di un’angoscia, o la luce di un rasserenarsi improvviso del cielo... I cieli pieni di piccole nuvole in passaggio sono di-rettamente collegati alla tonalità emotiva della scena.
Ma la luce sembra essere una qualità delle cose, e non dell’aria. E’ la materia stessa che diventa qua e là luminosa: i cieli di Mattotti sono pieni di nuvole perché anche loro sono pieni di materia, di colore steso sulla carta. E’ questa materia costruita dalla luce o nella luce che trasforma in eventi i fatti qualsiasi, che rende mito l’emersione del fondo nascosto della quotidianità.


(da Daniele Barbieri “Mattotti”, introduzione a Mattotti, Uitgeverij Sjors, Dordrecht, 1990, catalogo della mostra omonima, Dordrecht, Netherlands, luglio 1990, poi a Parigi, ottobre 1990. In seguito come introduzione a Mattotti, Edition Kunst der Comics, Hamburg, catalogo della mostra omonima, Hamburg, 1993. In seguito anche in Mattotti. altre forme lo distraevano continuamente, Arti Grafiche Friulane, Udine, 1995, catalogo della mostra omonima, Roma, maggio-giugno 1995)

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