di Daniele Barbieri


La pubblicità dell'abbigliamento è una sorta di pubblicità al quadrato: costruire l'immagine di un marchio di produzione o vendita di abiti è costruire l'immagine dell'immagine che ciascuno, indossandoli, presenterà di sé. E' l'immagine collettiva, pubblica, commerciale, dell'immagine personale, privata, diretta, che chi acquista quella merce presenterà poi di sé. L'immagine presente di un'immagine futura...
Per tutto ciò che riguarda i problemi di immagine non viviamo più in un epoca ingenua. Per quanto l'inerzia di una tradizione continui a fare il suo lavoro più o meno come sempre, fornendoci i modelli che guidano il nostro immaginario, anche vestimentario, molto spesso siamo ben consapevoli di tale inerzia e amiamo investirla di ironia. Come dire che anche se sappiamo che un'immagine collettiva è di per sé ben più forte e più concreta del mondo che si suppone starle dietro, che si suppone esserne l'origine, la accettiamo ugualmente ben volentieri, con tutto il suo carico di evocazione, limitandoci al massimo all'ironia: meglio insomma - tutto sommato lo sappiamo - la California immaginaria di quella vera, meglio il Texas, o le Haway, o la Scozia o qualsiasi altro mito geografico-stilistico considerato in sé che non la realtà sempre più banale o più difficile che gli ha dato occasione di esistere.
L'ironia è ciò che permette di non lasciarci inghiottire: è quella socratica distanza che ci lascia godere dell'immagine e dell'immaginario senza subire i lati assurdi e un po' ridicoli dell'eccesso. L'ironia è la "sprezzatura" degli aristocratici del vestire, coloro che sanno ben scegliere la propria immagine, mostrando al tempo stesso di esserle comunque un poco superiori.
La consapevolezza della necessità tanto di un immaginario ricco, e ricco fin quasi all'eccesso, quanto di quella patina di ironia che ce lo rende personalmente accettabile nel momento in cui dall'immagine pubblica, commerciale, si passi a quella personale e privata del vestito indossato, è ben presente in tutte le situazioni disegnate da Filippo Scozzari nei tre cataloghi creati per la WP dalla A.G.O. ("Alcuni Giovani Occidentali") tra l'86 e l'88. Non che Scozzari sia il responsabile complessivo dei cataloghi, e nemmeno è l'autore di tutte le illustrazioni, ma la sua impronta è quella decisiva, soprattutto nel primo. Rispetto agli altri due, ne troviamo ancora tutta la forza nelle meno frequenti illustrazioni del secondo, e comunque l'ispirazione in quelle, non sue, del terzo.
Filippo Scozzari è un autore di fumetti. Appartiene a una generazione e a un gruppo di autori che a partire dalla metà degli anni settanta ha pressoché rivoluzionato il modo di fare fumetti . Lo si vede per la prima volta su Linus e su Il Mago nel 1976; poi, nel '77 a Bologna fonda, insieme con Andrea Pazienza, Stefano Tamburini, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli, Cannibale, una rivista che, nonostante grandi difficoltà di distribuzione, ha un impatto folgorante sia sul mondo crescente del fumetto, sia sull'ambiente culturale universitario. Dallo stesso ambiente, quasi dagli stessi autori, nascono nel '78 Il Male e nel 1980 Frigidaire, soprattutto nella seconda delle quali Scozzari ha un ruolo preminente. Nel 1984 è tra i fondatori della A.G.O.: anche Marcello Jori, Giorgio Carpinteri (dei quali troviamo alcune illustrazioni nei cataloghi) e Massimo Josa Ghini sono fumettisti, e al fumetto sono in quel periodo legati un po' tutti coloro che si associano dandole origine.
Il gruppo di autori di fumetti cui Scozzari appartiene, il gruppo di Cannibale, de Il Male, di Frigidaire, non nasconde la propria aggressività politica, etica ed estetica. Il prodotto più famoso degli autori di questo gruppo è il coatto sintetico RanXerox, di Tamburini e Liberatore, che nei primi numeri si autodefiniva "un fumetto pieno di violenza gratuita!". Meno spettacolare l'aggressività degli altri, da quella di un Pazienza pieno di ironia e di surreale comicità, sorretto da una capacità grafica impareggiabile, alle concettuali parodie dei generi realizzate da Mattioli. Scozzari, di tutti loro, è il primo a raccontare davvero delle storie, a costruire cioè veramente dei racconti, non solamente delle storie-pretesto per giocare poi sulla situazione o sull'ironia. Le sue sono storie amare, sarcastiche, paradossali, quasi crudeli, ingentilite da una dimensione fantastica, spesso al limite dell'utopia (negativa): situazioni molto lontane che ricalcano a modo loro le situazioni che siamo abituati a vedere molto da vicino.
In breve il tratto principale, o più facilmente riconoscibile, della produzione Scozzari diviene la provocazione, il grottesco che proviene dall'esagerazione, dalla trasfigurazione espressiva delle piccole miserie. Un effetto di straniamento continuo che fa confinare il banale con il meraviglioso, la ridicolaggine con la squisitezza, a ricordarci continuamente che il valore delle cose e degli atteggiamenti dipende solo dallo sguardo che le osserva.
Esotico e ironico, dunque, Scozzari è l'intellettuale che partecipa, che si infervora all'avventura, vedendone i lati più spettacolosi e intriganti, ma che al tempo stesso trova ridicola e grottesca tanto essa quanto il se stesso che se ne è lasciato prendere. Troviamo dunque nella sua produzione sia la partecipazione all'immaginario dell'uomo di fantasia che la "sprezzatura" dell'aristocratico.
Ne consegue che nelle illustrazioni per la WP Scozzari non fa che mettere se stesso, un se stesso forse un poco ingentilito, ma nemmeno tanto. Verso la fine del primo catalogo, sul set epico di una caccia al leone, mette per esempio in scena un piccolo dramma erotico-sentimentale: la lei del cacciatore, maliziosa e seccata, gli rinfaccia qualcosa che non ha proprio niente a che fare con la caccia. Lui ne risulta dipinto come un tipico maschio vanitoso e insicuro, quanto di più stridente si possa immaginare con l'immagine classicamente eroica del cacciatore di leoni: sono - è evidente - una normale coppia occidentale in crisi, casualmente localizzata in un contesto leggendario. Ma il contesto rimane tale: il sarcasmo sui personaggi non uccide l'esotismo - anzi, è l'unica dimensione in cui ormai questo esotismo può sopravvivere.
Esiste almeno un grande precedente a questa operazione sull'abbigliamento gestita da un fumettista. Dal numero 11, luglio 1984, la rivista Vanity aveva affidato un certo numero di immagini di moda a dei fumettisti, prima, tentativamente, con poche pagine ai membri del gruppo Valvoline, poi, dopo soli due numeri, affidando a disegnatori di fumetti pressoché tutte le immagini di moda che vi comparivano. Va precisato che in questo periodo la generazione emergente della letteratura a fumetti è lungi dall'essere specializzata. Tra coloro che hanno seguito a ruota l'esperienza di Cannibale gli attraversamenti di confine sono la norma: pittura, grafica, design, televisione sono diventati campi contigui, spesso dai confini incerti con il mondo del giovane fumetto. Non solo: in questo periodo questi autori stanno facendo tendenza, e Vanity pubblicizza la moda con gli autori di moda.
L'operazione che gli autori di Vanity compiono è complessa. Da una parte l'abito da presentare viene inserito in una situazione narrativa che lo connota in un certo modo; dall'altra, le immagini sono tutte caratterizzate da una particolare attenzione stilistica. Si tratta sempre di immagini "d'autore", ricercate e attente alle valenze grafico-pittoriche di ogni segno: un attributo di raffinatezza ed eleganza che è comune a tutte, e che prescinde da qualsiasi cosa o situazione vi venga presentata. Al limite, l'abito non è nemmeno più importante: non è raro che se ne possa imparare di più dal commento verbale che non da quello che l'immagine lascia decifrare.
Quando la A.G.O. e Scozzari realizzano i cataloghi WP, l'esperienza Vanity è ancora in corso, benché i segni di cedimento si vadano facendo più frequenti. Tra l'altro ad essa hanno partecipato sia Carpinteri che Jori che Josa Ghini - stranamente, non lo stesso Scozzari.
Nonostante l'abbinata fumetto-abbigliamento sia la stessa che per Vanity, le esigenze di un catalogo per la vendita sono differenti da quelle di una rivista di moda. Intanto, certamente, sulle sue pagine il prodotto si deve riconoscere, deve poter essere apprezzato anche per la sua fattura, per i suoi particolari: non ci troviamo qui all'interno di una rivista che può permettersi di interpretare gli oggetti che presenta sino a lasciare che solo le connotazioni culturali ed emotive abbiano forma definita. L'immagine del prodotto, in un catalogo, deve risaltare in entrambe i sensi del termine ambiguo: deve esserci l'immagine, ovvero la figura, l'illustrazione dell'oggetto che va presentato, e l'oggetto deve essere accompagnato da un'immagine commerciale complessiva della linea di prodotti e della casa che li vende.
Scozzari non ha bisogno di spostarsi molto dalle sue modalità usuali di produzione: narrativo da sempre, tanto nel modo di costruire le immagini come in quello di montare le vicende, racconta qui gli abiti e coloro che li indosseranno. In molte delle immagini dei cataloghi illumina situazioni potenzialmente complesse cogliendole nel loro attimo cruciale: l'arrivo della graziosa figlia del vecchio donnaiolo insieme con un nuovo, insulso marito, il successo dei cercatori di petrolio proprio nel momento in cui sta per scatenarsi una feroce lite per una donna, il dialogo tra Dedalus e Nora su Joyce che li segue... Situazioni narrative, esasperazioni provocatorie di luoghi comuni da racconto: chi si vestirà come i personaggi non solo avrà qualcosa in comune con il fascino di quei contesti (la casa di legno sulle Rocky Mountains, il pozzo di petrolio in Alaska o chissà dove, la Dublino immaginata da Joyce), ma possiederà anche quella distanza da essi di chi ben sa quante storie hanno già contenuto.
Altre situazioni sono meno fulminanti: dal signore dai baffi rossicci che accarezza un cavallo guardando noi lettori come in una vecchia foto, al recinto del campo di lavoro con detenuti e sentinelle, al passaggio pedonale newyorkese dove la nevicata avvolge sia il manager certamente e arrogantemente wasp che il ragazzetto di colore, casualmente affiancati ma non a caso vestiti entrambi Woolrich. Anche in questi non-racconti la situazione è comunque palpabile: il rapporto con noi che la osserviamo è mediato dal suo essere già apparsa in innumerevoli altri racconti, film, reportage, servizi, foto d'epoca o d'occasione. E' questa mediatezza dichiarata a caricare di mito la situazione, a rendere "leggendari" gli abiti che vi compaiono.
Nel secondo catalogo le situazioni diventano più spesso irreali. Anticipate da un unicorno che, già nel primo catalogo, appare ridendo a un cacciatore verde per lo spavento, incontriamo una perquisizione da film americano dove al malcapitato viene trovata della (!) kriptonite rossa, l'apparizione di un angelo dalle forme femminili tra le palme aperte di un elegante giovanotto dai capelli verdi seduto su un divano, la calata dal cielo di un pesce gigantesco sul pescatore vanaglorioso; per non dire della copertina, dove, accanto all'attempato pescatore, penzola un pesce spada coperto di arabeschi. Di nuovo come prima, ma in forma diversa, situazioni da immaginario standard ravvivate dal guizzo dell'imprevedibile.
Del terzo catalogo Scozzari realizza solo la copertina (sulla quale un'alce in giacca e cravatta esce da un WP Store). Il catalogo è, nel suo complesso molto più fotografico e specificamente dedicato ai prodotti di quanto non fossero i precedenti, con poche illustrazioni a disegno, segno forse che l'operazione di creazione di immagine realizzata dai cataloghi precedenti è riuscita a sufficienza da permettere che il centro dell'attenzione cada ora altrove.



(in Wp Stories. Dieci anni fuori moda, a cura di Roberto Grandi, Lupetti, Milano, 1992)

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