di Daniele Barbieri


Uno. Il colore e la materia
La prima cosa che colpisce nelle immagini e nei fumetti di Lorenzo Mattotti è il colore. Sono passati molti anni da quando comparivano su Alter Alter le prime tavole di Fuochi, eppure i colori di quell’opera non colpiscono il lettore di oggi meno di quanto colpissero il lettore di allora.
I colori di Fuochi tendono alle campiture piene e uniformi, ma è la grana stessa prodotta dallo strumento utilizzato, il pastello a olio, a rendere modulate e materiche anche le superfici dall’apparenza più piatta. Con questa tecnica, i colori di Mattotti godono sia della chiarezza e autoevidenza dei colori piatti, sia della capacità descrittiva ed evocativa delle sfumature e delle ombreggiature. Il colore piatto tradizionale del fumetto, in altre parole, conquista la morbidezza del colore della pittura senza rinunciare alla propria specificità.
Che cosa contrappone, in generale, il colore del fumetto a quello della pittura? Dire che nell’uno il colore è un mezzo e nell’altra è un fine sarebbe una semplificazione inaccettabile, se non ci indirizzasse a sua volta verso una soluzione più sensata. Nella pittura, insomma, la distanza tra il colore, inteso come significante, e il significato dell’opera complessiva è generalmente molto minore che nel fumetto; la quantità di mediazioni che si interpongono è cioè significativamente più piccola. Nel fumetto, il colore contribuisce a comporre delle immagini, le quali, insieme con le parole che le accompagnano, costruiscono un racconto, e il significato complessivo è dato dal rapporto tra questo racconto e le sue componenti. In pittura, il racconto è un’opzione non necessariamente influente, e le parole di accompagnamento di solito non ci sono: in molti casi, forme visive e colori costituiscono la totalità delle componenti da cui estrapolare un senso dell’opera. In casi estremi può scomparire persino la forma, come nelle opere di Yves Klein, e il colore rimane l’unica componente.
Tradizionalmente il colore ha nel fumetto una funzione contrastiva. L’immagine in bianco e nero è in generale più difficile da leggere di quella a colori, perché possiede meno possibilità di contrasto. Dal punto di vista cromatico, nell’immagine in bianco e nero in prima istanza solamente l’opposizione tra chiaro e scuro può essere messa in gioco, e in seconda istanza una serie di opposizioni meno forti possono ricavarsi dall’uso di tessiture e retinature differenti, le quali spesso fanno le veci del colore. Ma non si tratta di veri colori. Sono piuttosto forme che da colori si travestono, senza raggiungerne la vividezza e la capacità contrastiva. Così rispetto all’immagine a colori, quella in bianco e nero richiede una maggiore capacità di costruzione da parte dell’autore e un lavoro interpretativo più intenso da parte del fruitore, perché i mezzi a disposizione di entrambi sono minori.
È per questa ragione che i fumetti per bambini tendono a essere a colori, e i cattivi editori ricolorano, di solito malamente, i fumetti nati per il bianco e nero. I colori restituiscono il contrasto, migliorando la leggibilità, aumentando a poco prezzo la profondità delle immagini - e poco importa a molti che spesso tradiscano il senso di un’opera nata per farne a meno. D’altro canto questa chiarezza ha un costo, e questo costo è il colore piatto.
Non ci sono infatti solamente ragioni economiche dietro all’uso dei colori piatti nel fumetto, ma anche ragioni percettive. L’immagine del fumetto richiede una lettura tendenzialmente rapida - non perché il suo contenuto sia futile, ma perché il suo significato si trova solo nel rapporto con le immagini che la precedono e la seguono. Il colore migliora questa rapidità della fruizione solo a condizione di non imporsi a sua volta come oggetto di osservazione, solo a condizione, cioè, di essere semplice, immediato, non problematico.
Vi sono autori di fumetti che hanno fatto della negazione di questa regola un punto di poetica, con esiti dei più vari, spesso positivi quando il rallentamento così prodotto nella lettura trova appoggio nella logica complessiva del testo, oppure negativi altrimenti - di solito quando la complessificazione del colore si risolve in semplice virtuosismo pittorico.
Il colore di Mattotti, in questo senso, nasce come un colore fumettistico, e quindi vivido, di immediato contrasto e facile leggibilità. Tuttavia, poiché le storie che i fumetti di Mattotti raccontano affrontano temi delicatamente psicologici, questa facilità di lettura va necessariamente sposata a qualcosa che non la renda troppo povera. Dev’essere insomma possibile utilizzare i colori al tempo stesso per permettere la fluidità della lettura e per puntualizzare con estrema precisione gli stati d’animo e le oscillazioni di situazione.
Non che al colore vada demandato tutto il carico, tutta le responsabilità di questi effetti di senso; vi sono altre componenti del testo a fumetti che se ne fanno parzialmente carico. Ma nella poetica di Mattotti il colore possiede un ruolo decisivo.
In Fuochi non è difficile individuare una serie di ritmi del colore. All’interno della singola vignetta i contrasti di luce si accompagnano ai contrasti tonali tra gli azzurri e i gialli, tra i verdi e i rossi - oppure sono le sfumature tra toni simili a dominare. Tra le vignette, il rapporto tra quelle tonalmente omogenee e quelle tonalmente contrastate corrisponde al rapporto, nel racconto, tra rilassamento e tensione - mentre a livello di grandi unità narrative, i colori azzurro violacei della corazzata si contrappongono a quelli verdi e gialli dell’isola durante il giorno e ai rossi e ai neri degli incubi della notte. L’alternanza delle fasi cromatiche corrisponde a quella delle fasi narrative, a tutti e tre i livelli.
Per Mattotti, il rapporto tra colore e “matericità” è molto stretto. Il gesto stesso del disegnatore che stende la sua materia cromatica sulla carta è un gesto sensuale e possessivo. La matericità del colore allude implicitamente alla matericità delle cose che rappresenta; metaforicamente, è quella stessa matericità. Attraverso la stesura del colore, e attraverso l’effetto che ne risulta, il mondo rappresentato e raccontato dall’autore diventa estremamente presente al lettore, quasi vivo.
Qui, dunque, il colore non è più mimetico, non è più imitazione di quello del mondo che rinvia alle cose in virtù della sua somiglianza. In tanti casi questa somiglianza non c’è per niente, nelle immagini di Mattotti. È piuttosto la materialità del colore a farsi metafora della materialità delle cose. Con questa invenzione linguistica, il colore di Mattotti acquista la freschezza che di solito il colore del fumetto non possiede - facendosi protagonista della significazione senza togliere spazio alle altre componenti del testo.
Il colore di Mattotti, insomma, è un colore fumettistico perché rispetta la regola della semplicità interpretativa - ma al tempo stesso è un colore che inventa un modo nuovo per rendere vivido il mondo che costruisce. La magia dell’opera di Mattotti non è dovuta solo al suo uso del colore, ma la sua invenzione cromatica è già da sola un meccanismo semantico potentissimo, capace di ricaricare di novità mille colori mille volte visti.

Due. La forma e la cultura
Se il colore è legato alla materia, ponte metaforico tra l’immagine e il mondo che essa rappresenta, nell’opera di Mattotti la forma è legata alle concrezioni culturali e al mito.
È facile - l’hanno fatto in tanti - trovare riferimenti pittorici nelle forme di Mattotti. Dall’impressionismo all’espressionismo, da Matisse a Morandi, da Pollock a Paul Klee, è possibile attraversare un universo intero di riferimenti figurativi. Non succede quasi mai, tuttavia, che questi riferimenti siano di un qualche rilievo per il significato complessivo dei testi di Mattotti. Le forme cioè, se vogliamo, sono quelle, o ricordano quelle, ma l’autore ne fa l’uso disinvolto che noi facciamo solitamente delle nostre parole e delle nostre costruzioni verbali, poco curandoci che le abbia inventate Dante Alighieri, o Giacomo Leopardi, o qualche altro grande artista della parola.
Quelle forme, in altre parole, ricordano impressionisti ed espressionisti, Matisse e Morandi e così via, e probabilmente rimandano al significato cui rimandano anche in virtù della loro origine, e del fatto di essere collegati con i loro autori, ma per gli scopi di un’arte diversa da quella della pittura non sono che mattoni semantici da costruzione - e poco importa che appartengano o siano appartenuti a qualcuno. Il fumetto non è la pittura, e le regole figurative e di significato che vigono in un linguaggio possono benissimo non vigere in un altro.
Ben diverso è il discorso se si passa dal considerare le forme di Mattotti come riferimenti culturali al considerarle come significanti mitici o mitopoietici. In questo caso, infatti, si affronta davvero una componente determinante del significato dei testi di Mattotti.
Può forse sembrare facile trovare componenti mitopoietiche in una storia come Fuochi, così basata sull’emergere dell’inconscio, come del resto in tante delle storie realizzate o da solo o in collaborazione con Jerry Kramsky. Per questo, vale la pena di andare a cercare il mito nella produzione apparentemente più effimera e superficiale: le illustrazioni di moda realizzate per la rivista Vanity.
Non di rado violentemente ironiche, sintomo di un rapporto difficile tra il mondo dell’effimero per eccellenza e un autore votato all’interiorità e al dialogo silenzioso con le cose, le immagini di Vanity hanno consacrato la fama internazionale di Mattotti come illustratore. Con ogni probabilità, l’aspetto che per primo si è imposto all’occhio del lettore di Vanity è stata la violenza del colore - ma anche l’irriverenza delle ambientazioni e delle situazioni ha senz’altro significato molto. Più difficile è invece capire perché queste immagini non sono solamente delle splendide composizioni cromatiche che buttano all’aria una serie di convenzioni delle immagini di moda.
Dove le modelle, nuove “Signorine di Avignone”, portano come viso delle maschere tribali africane, il riferimento mitico è evidente, ma anche scontato, e surclassato dalla facilità della citazione. È più difficile, in altri casi, rendersi conto che la magia della situazione è dovuta, per esempio, al discreto utilizzo dell’icasticità delle figurazioni minoiche. Discreto perché accennato quel tanto che basta da riportarne alla mente il senso di perduta teatralità, senza riempirne un’immagine che deve comunicare anche altro.
Altrove, è la dominante scura oppure nivea di un cielo del nord a scatenare il meccanismo delle associazioni mitopoietiche, o la luce inquieta di un temporale. Spesso, l’imponenza dei piani di inquadratura aggiunge alle figure connotazioni epiche, mentre la presenza di uno sfondo lontano le riconduce a una dimensione più teatrale.
Il teatro, insomma, quel contesto in cui “tutto si tiene”, sembra il referente costante della figuratività dei disegni di Mattotti per Vanity. Ma un teatro antico più che uno moderno, un teatro in cui la voce collettiva del Coro non appare allo spettatore come una forzatura, bensì come la simbolica voce della collettività - un teatro mitico, o meglio mitopoietico.
Le immagini per Vanity sono il luogo dove questa vocazione teatrale ha trovato l’espressione più vivace e superficiale, ma in tutta la produzione di Mattotti le forme grafiche hanno l’icasticità simbolica delle forme e delle figure drammatiche del teatro antico. In alcuni casi questa vocazione dà forma a storie che hanno persino luogo in un teatro, come “I misteri di Casal Busseto”. Più spesso sono i personaggi, o le apparizioni, a godere di questa drammaticità da mondo antico, così intensamente ricoperta di simboli e di riferimenti al mito. Le parche, le furie, i titani e le ninfe di Mattotti vivono un’intensa dimensione figurativa, persino quando abitano le storie sempre un poco ironiche scritte da Jerry Kramsky. Sono divinità o eroi solo nella misura in cui questo attribuisce loro una dimensione particolare - ma per il resto vivono in mezzo a noi, rivelandosi a volte anche solo per un attimo nella curva di un braccio, nella luce di uno sfondo.

Tre. Il ritmo narrativo
Con questi colori, con queste forme, il racconto si presenta con naturalezza alla lettura come un oggetto di lenta e meditata fruizione. Le figure non sono difficili da decifrare visivamente come quelle di José Muñoz, che costringono a una lettura lenta chiunque voglia anche solo avere un’idea delle forme; in Mattotti la comprensione visiva è di solito abbastanza veloce. Ma è la natura composita dell’immagine stessa a invitare l’occhio a soffermarsi più a lungo.
Le storie di Mattotti sono storie di sensazioni, di sentimenti. Nei rapporti tra i primi piani e gli sfondi delle sue immagini, nei rapporti tra i colori vicini e quelli lontani c’è gran parte della resa di quelle sensazioni. Una tristezza, un’angoscia, non sono le stesse se il cielo che fa da sfondo è differente. La peggiore melanconia di questo mondo non può che velarsi di nostalgia o di accettazione, se si staglia contro un paesaggio sereno e una luce mattutina. E l’ebbrezza può rivoltarsi in positivo o in negativo a seconda delle figure e dei colori cui viene accostata.
Dunque, il racconto delle sensazioni parte dalla singola figura, ancora dentro le immagini. Mattotti affronta, con il suo modo di fare fumetto, una sfida inconsueta: rendere con l’immagine quello che di solito viene reso con altri strumenti di comunicazione. In quanto oggetto visivo l’immagine si presta ovviamente a rendere l’immediatezza delle sensazioni visive; ma quando l’oggetto del racconto è una condizione emotiva e percettiva globale dei personaggi, il racconto per immagini entra in un terreno difficile, in cui è costretto a esprimersi per metafore ogni volta che il mondo esplorato è più intimo e profondo. L’aiuta, certo, la componente verbale del fumetto, che imposta il contesto emotivo entro cui le immagini devono essere interpretate: ma l’atmosfera di autoconfessione emotivamente turbata in cui spesso le parole dei personaggi di Mattotti si muovono si scioglierebbe come neve al sole se le stesse immagini non la rilanciassero e non la esaltassero.
Catturato della levità dei temi raccontati, il lettore stesso è portato a muoversi con leggerezza attraversando le vignette. Si tratta di una leggerezza tragica, o almeno drammatica, come quella evocata da Nietzsche, una leggerezza che si manifesta in un rispetto per immagini che non possono essere consumate e poi relegate nel dimenticatoio dell’acquisito e sintetizzato. È come se ogni immagine di Mattotti ci chiedesse di percorrerne la superficie più volte, godendo ogni volta per dei tratti diversi.
Questo succede tanto di più nelle aperture e chiusure di capitolo delle storie lunghe, come Fuochi, La zona fatua, L’uomo alla finestra. Queste immagini sono delle vere barriere doganali del sentimento, dove il lettore deve soffermarsi e pagare il suo dazio di sensazioni. Immagini di forte sintesi, che, inserite nel discorso, appaiono come il luogo dove convergono o da cui divergono le correnti sotterranee del discorso. Nelle storie di Mattotti la presenza di queste immagini particolari configura andamenti passionali a grandi blocchi, facendo in modo che l’evoluzione delle sensazioni che attraversano il racconto si sostituisca all’andamento del racconto stesso, assai meno lineare e, spesso, assai meno comprensibile. Se proviamo a raccontare, a riassumere, molte di queste storie, infatti, ci resta in mano assai poco. La magia che le riempie nella loro normale dimensione sembra svanire del tutto. Non capiamo se le risoluzioni sono davvero risoluzioni, o quanto siano aperti i finali...
Raccontate con le immagini di Mattotti, al contrario, esse appaiono vive, quasi le si sente respirare. E ci si accorge, attraverso questo confronto, che la trama delle storie di Mattotti è poco più di un pretesto per parlare sempre dello stesso argomento: l’intensità e la varietà delle sensazioni, attraverso il rapporto con le cose e con le persone.
Tutto il ritmo narrativo è dunque fondato su questo, sull’alternanza delle diverse sensazioni e delle differenti intensità - e le stesse trame sono funzionali a questo gioco. Ora più lento ora più rapido ora leggero ora incisivo, il modo di comunicare a fumetti di Mattotti assomiglia a quello di un musicista, che, tramite il pretesto di un tema o di un altro e attraverso il percorso che a partire da esso costruisce, conduce per mano le sensazioni del suo pubblico.

Quattro . Il bianco e nero
Il bianco e nero estremizza le passioni raccontate da Mattotti. Non penso alle vecchie prove della fine degli anni Settanta - per quanto molto si vedesse già allora. Storie brevi come Insomnia e Il segreto del pensatore, o lunghe come L’uomo alla finestra o Stimmate, condividono questa accentuazione delle passioni, questo disvelamento di quanto la magia del colore trasforma invece in vitale matericità.
Costretto a sublimare nelle linee il proprio rapporto con la materia, non più esprimibile nella grana del colore, Mattotti in bianco e nero non ha che le forme per esprimersi. La dimensione mitopoietica diventa sovrana.
In una storia esemplare come Il segreto del pensatore Mattotti non fa che mettere in scena una sequenza di proiezioni mitiche, attraverso il classico gioco delle trasformazioni delle nuvole. Il segreto del pensatore è la capacità di vedere il mito nelle cose del mondo, una capacità dei bambini e dei poeti. In tutto il testo non c’è che un succedersi di forme che si trasformano, diventando a volte improvvisamente riconoscibili, e vivendo brevi vicende che danno luogo ad altre vicende, dissolvendosi a loro volta in altre forme ambigue che nuovamente si compongono... L’unica coerenza dello svolgersi del testo è data dalla continuità e dalla mutazione della tonalità emotiva, che trascorre da un sereno gioco di bimbi all’intensità di un rapporto sessuale all’inquietudine della sproporzione delle forme al timore del gigantesco all’angoscia dell’essere inghiottiti alla paura dell’incomprensibile e infine al riconoscimento e alla comprensione dell’angoscia stessa attraverso la figurazione del temporale e della notte.
Tutto è più forte, più diretto, più inquietante che nelle storie a colori. La sintesi estrema cui il segno sottile del pennino costringe Mattotti gli rende impossibile quella percezione estatica del mondo che rende solari le sue storie a colori. Così, resta davvero solo la sensazione, e la sua resa attraverso il mito.
Ne L’uomo alla finestra, l’esilità del tratto corrisponde all’esilità dei lineamenti del protagonista, sintomo ripetuto dell’esilità del suo rapporto con il mondo, modificato, se non stravolto, da qualsiasi cosa gli succeda. Tra lui e il protagonista de La zona fatua, non meno sbattuto di lui dall’avvicendarsi delle cose, c’è una forte differenza di concretezza. La zona fatua, con tutta la sua impossibilità, appare decisamente più materiale, più solida della città che l’uomo guarda dalla finestra, e la matericità dei colori ancora saldamente i personaggi a una qualche realtà, cui nessun mito riesce a strappare la tangibilità, l’immanenza. Dalla finestra, l’uomo disegnato al pennino non può che scendere dentro a racconti, poiché pare che il mondo, spogliato della materia, non sia fatto che di loro.
A margine, osserviamo che sia ne L’Uomo alla finestra che ne Il Segreto del pensatore viene rappresentato un rapporto sessuale, in cui le figure accoppiate sembrano sciogliersi l’una nell’altra, e dare vita ad altre forme, del tutto diverse. Non c’è nessuna storia precedente a colori, che io ora ricordi, in cui Mattotti presenti una situazione analoga. Posso ipotizzare due spiegazioni di questo.
Nelle storie a colori la passione del tatto, del contatto, del coinvolgimento ravvicinato, è tutta svolta nel rapporto con la materia mediato dalla stesura dei colori. Estremizzando un po’, ogni momento di ogni storia a colori di Mattotti è un atto sensuale, o forse addirittura sessuale.
Proprio per questo, dunque, rappresentare a colori un atto sessuale rischia di costituire un momento di eccessiva intensità passionale - troppo gridato per poter trovare un posto nel mondo fatto di sfumature delle storie di Mattotti. Ma in bianco e nero la materia è scomparsa, e la passione amorosa viene mediata dal sogno e dal mito: in questo modo può essere pronunciata con lo stesso tono di tutto il resto, e può essere rappresentata.

Cinque. Spazi e architetture: correre e contemplare
Nelle storie a colori, il corrispondente metaforico degli atti sessuali può essere forse individuato nella figura dell’uomo che corre, e, in misura minore, in quella dell’uomo che contempla. La corsa, così come la troviamo rappresentata nelle storie di Mattotti, è sempre un atto di immersione e coinvolgimento, è un deragliamento dei sensi per sovraccarico di sensazioni, è l’atto di esplosione passionale in cui il personaggio vive intensamente l’ambiente che lo circonda. In misura minore, questo succede anche con la contemplazione, nelle immagini che rappresentano la quale, tipicamente, il personaggio è minuscolo in un paesaggio soverchiante.
In questo, il trait d’union tra il bianco/nero e il colore si trova nelle rappresentazioni architettoniche. Gli edifici di Mattotti sono sempre, infatti, i luoghi magici in cui il senso del paesaggio, materico o mitico che sia, trova il suo emblema. Gli edifici sono alti, o lunghi, sempre percorsi da un’elegante e sottile inquietudine. Le loro finestre sono piccole o quasi assenti. Sono luoghi del mistero, luoghi dell’anima. Sono l’interno che dialoga con l’esterno. Sono, talvolta, i veri personaggi delle storie, come il faro di Fuochi, o il vecchio albergo della Zona fatua.
Lo spazio, concretizzato in edifici e paesaggi, è evidentemente per Mattotti uno strumento per esprimere sensazioni, non meno del colore e decisamente più diretto. Potremmo probabilmente, a ben cercarla, individuare tutta una tipologia dei luoghi e delle sensazioni ad essi correlate.
Ci accontentiamo di notare, per ora, come il modo di raccontare per immagini di Lorenzo Mattotti sveli i suoi segreti lentamente e progressivamente, e come le tecniche narrative da lui utilizzate siano tante, intrecciate e complesse. Sembra non si debba finire mai di scoprirle, così come non si finisce mai di godere dei testi da lui creati - un segno inequivocabile di grandezza.


(Inedito, 1995)

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