Orient Express
Orient Express n. 1, 1982. Copertina di Magnus
Incontro spesso gente che mi dice: "Ah, certo che se ci fosse ancora Orient Express…". Me lo dice un po' perché davvero crede che la chiusura della rivista abbia recato un danno importante al fumetto italiano contemporaneo. Ma me lo dice anche perché si ritiene in dovere di consolarmi, quasi avessi subito un lutto da quale faticassi a riprendermi. Così sono io che devo tranquillizzare loro. "E perché mai?" dico. "Orient Express la sua funzione l'ha svolta. Non poteva dare di più di quanto abbia dato. È stato giusto fermarla lì". Nessuno mi crede, è ovvio. Pensa che lo dica tanto per dire, e che, in realtà, io non sappia ancora darmi pace. Per questo, sono molto contento dell'opportunità che mi offre Il fumetto dell'Anaf (un'associazione che ha sempre seguito con interesse e benevolenza la mia attività di editor nel settore fumettistico e alla quale, salvo una breve parentesi, sono iscritto sin dai mesi immediatamente successivi la sua fondazione), sono molto contento perché mi viene data occasione per riflettere sull'importanza e sui limiti di Orient Express con la mente sgombra dalla nostalgia (che davvero non ho mai provato) e con la possibilità di allargare la visione anche a quanto è stato fatto dopo il marzo 1985, data dell'ultimo numero della rivista.
Prima dell'uscita di Orient Express, il fumetto d'autore in Italia era nel pieno di quello che mi piace chiamare "ciclone Rocca": l'intraprendente editore italo-spagnolo Roberto Rocca stava contemporaneamente pubblicando ben tre riviste (Totem, Métal Hurlant e quel Pilot del quale mi aveva affidato la direzione) e numerose collane mensili di albi. Rocca riversava ogni mese in edicola almeno cinquecento pagine di storie, per lo più francesi, frutto di autori poco o per niente conosciuti. Era come se dieci anni di fumetto internazionale precipitassero d'un sol colpo sul povero lettore. Povero ma evidentemente ingordo, dato il buon successo delle iniziative. Non c'erano linee editoriali precise, nelle pubblicazioni di Rocca, tranne una: il completo ostracismo agli autori italiani, salvo Milo Manara, beninteso, quel Milo Manara che, rifiutato da Oreste del Buono per Alter Alter, è stato (ed è tutt'ora grazie al costante successo dei suoi libri) il vero asso nella manica di Rocca, quello che gli ha permesso di superare i numerosi momenti difficili della sua vita editoriale.
Lasciando da parte 1984, la cui presenza è sempre stata così discreta da passare del tutto inosservata, le altre riviste che si pubblicavano in quei tempi ( L'Eternauta e Alter Alter) parevano anch'esse avere qualcosa contro i fumettisti italiani, non tanto quelli già conosciuti, ma quelli o che stazionavano nelle pubblicazioni "popolari" (LancioStory in testa) in attesa di una "promozione" che già ampiamente meritavano, o, più malinconicamente riempivano i propri cassetti di lavori che nessuno si prendeva la briga di esaminare con attenzione. Il solo Frigidaire, in edicola da pochi mesi, pareva avere chiara la situazione: il fumetto italiano era ricchissimo di idee e di talenti, idee e talenti che, all'interno della rigorosa linea che si era imposta, aveva iniziato a sottoporre ai lettori e ai critici di una vasta platea internazionale. Ma se, editorialmente parlando, l'avanguardia (se così si possono chiamare le elaborazioni di Pazienza, Scozzari, Tamburini, Liberatore, Mattioli, Carpinteri, Igort e via dicendo) era molto ben coperta, nient'affatto rosea era la condizione del cosiddetto fumetto classico. Per questo nacque Orient Express, per offrire agli autori che non si identificavano con le correnti più estreme pagine nelle quali poter esprimere liberamente il proprio talento, la propria professionalità e la propria voglia di esserci.
E i nomi che chiamai non erano di poco conto. Andavano da Micheluzzi, che già aveva uno spazio su Alter Alter, ma che mi sembrava avesse ancora parecchie cartucce inesplose (e ancora non immaginavo con quale ritmo fosse in grado di produrre nuove storie…) a Manara (il quale, essendo stato presente al felice debutto di tutte le riviste di Rocca, pensavo scaramanticamente che portasse fortuna); da Panebarco a Cavezzali (dei quali L'Isola Trovata aveva già pubblicato parecchi libri), da Giardino (di cui avevo una storia, Rapsodia ungherese, ideata e disegnata per essere edita direttamente in libro; a Magnus (che ero riuscito a convincere a riprendere le avventure de Lo sconosciuto. Avevo inoltre dato un'occhiata a Skorpio e a LancioStory, trovandovi alcune matite che bisognava liberare al più presto dall'angustia di quelle pagine. Si chiamavano Saudelli, Cossu, Rotundo, Sicomoro ed Eleuteri Serpieri e, tranne quest'ultimo, nessuno sembrava mai averli sentiti nominare. Ed erano italianissimi, come tutti gli altri che ho menzinato prima. C'erano insomma le basi per costruire qualcosa di importante, forse una via italiana al fumetto di avventura, forse la base per un'esplosione internazionale del fumetto di casa nostra.
Non avevo torto. Oggi, tutti i nomi che ho citato sono conosciutissimi in Italia e all'estero, alcuni addirittura autentiche star. Che dire poi degli altri aggiuntisi dopo? Berardi e Milazzo (il massimo, secondo gli appassionati dell'Anaf che li premiano ogni anno con la statuetta del Nettuno), Brandoli e Queirolo (gli unici davvero strappati alla concorrenza della Milano Libri, all'interno di una politica editoriale che è sempre stata di buon vicinato), i giovanissimi Roberto Baldazzini e Antonio Fara (una concessione a stili più estremi, ma anche autentici talenti di cui si sentirà parlare ancora a lungo), Carlo Ambrosini e Silvio Cadelo (due facce contrapposte della stessa voglia di esprimersi attraverso le nuvolette): un cast nel suo complesso forse irripetibile (comunque mai ripetuto), che i fedeli lettori apprezzarono parecchio, ma che non riuscì mai a sfondare il tetto necessario a far quadrare i conti. In altre parole, la rivista perdeva denaro. Perché, se era il meglio che si potesse trovare?
Forse perché, ripensandoci a mente fredda, non era né carne, né pesce. La proposta di Orient Express non era il pastone dove si poteva trovare tutto e il suo contrario (come le riviste di Rocca), non aveva la convinta e studiata aggressività di Frigidaire, non era penzolante verso il discutibile gusto "popolareggiante" degli ispano-argentini de L'Eternauta (le cui didascalie, con quel loro finto tono poetico, mi hanno sempre fatto e mi fanno tutt'ora rabbrividire), e non credeva nel trasformismo eletto politica editoriale di Alter Alter. Orient Express aveva scelto di stare nel mezzo, di avere idee ma di esprimerle senza urlare, di avere gusto, ma di non credere di essere l'unica. Orient Express insomma era una rivista che chiedeva soltanto il permesso di crescere, perché solo crescendo avrebbe potuto dare il meglio di se stessa.
E per molti versi crebbe davvero, forse persino troppo in fretta. Fra le sue pagine spuntarono inattesi capolavori da consegnare direttamente alla storia del fumetto italiano. I nomi? So che è indelicato farli, ma non vedo lo stesso una ragione per tacerli.
Rapsodia ungherese, di Giardino, innanzitutto, un racconto raro, troppo raro nella narrativa per immagini, pieno e robusto, di squisita fattura, discreto e convincente, forse irripetibile. L'uomo che uccise Ernesto "Che" Guevara, di Magnus, una storia che molti hanno discusso senza davvero leggerla, un grido vigoroso contro il perbenismo e la banalità di troppo fumetto, un'autentica lezione di cultura grafica. Il primo Air Mail di Micheluzzi, purtroppo rovinato da una pessima colorazione di cui mi sento in parte responsabile: un incanto di doppi e tripli sensi, una dimensione complessiva gioiosa e irridente. E una sceneggiatura molto misurata, senza tutte quelle fratture alle quali troppo spesso l'autore ci condanna. Il detective senza nome, di Rotundo e Mignacco, riscrittura sapiente di Piombo e sangue di Hammett, un'opera che avrebbe avuto bisogno di quell'apporto di contorno che doveva figurare nell'edizione in volume, che i responsabili che mi sono succeduti alla guida della casa editrice non hanno però inteso predisporre. La serie dei racconti di Zampino, di Ferrandino e Cossu, autentiche perle nel rappresentare in modo credibile e avvincente squarci della realtà di casa nostra. Il caso di Marion Colman, la prima e unica avventura di Marvin, il detective che secondo gli autori Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo avrebbe dovuto sostituire nel cuore dei lettori il "vecchio" Ken Parker. Luna caliente, di Saudelli che, dopo avere solo parzialmente convinto con La figlia di Wolfland, ha trovato finalmente la sua misura di fumettista completo, per di più baciato da una sorprendente vena ironica, davvero rara in un disegnatore di segno realista.
Capolavori inattesi, ho detto. Forse persino prematuri, dato che le intenzioni della rivista erano piuttosto quelle di creare un nucleo di autori credibili per il mercato italiano, in vista di una loro inevitabile maturazione e conseguente possibile esportazione. Accadde invece che in Italia il mercato non fu mai conquistato, mentre all'estero veniva tradotto, spesso con successo, moltissimo di quanto si andava pubblicando, illudendoci un po' tutti, autori ed editori, sulla bontà della strada che stavamo seguendo. E facendoci perdere di vista che l'importanza di Orient Express era soprattutto nel suo essere un laboratorio, un laboratorio nel quale bisognava impegnarsi al meglio per imparare il mestiere. In questo, credo stia l'unico rincrescimento per la prematura chiusura (ma per i risultati di vendita forse fu persino portata troppo avanti): perchè a un certo punto la fase di apprendistato si poteva ormai dire conclusa e finalmente ognuno di noi (mi ci metto anch'io, dato che ho "imparato" a fare una rivista facendola) era pronto per quel salto di qualità che ci avrebbe probabilmente permesso di esserci ancora, molto meglio di quanto ci siamo adesso, sparpagliati in diverse pubblicazioni.
Riletta oggi, a mente fredda e senza gli inevitabili condizionamenti che avevo allora, la qualità complessiva dei fumetti di Orient Express, a parte gli esempi che ho fatto prima e a parte qualcun altro facilmente intuibile, non mi pare affatto eccezionale, né d'altronde avrebbe potuto esserlo. Storie sciatte e personaggi finti sono spesso un'infelice costante della narrativa per immagini. Il dilettantismo in progress della rivista difficilmente avrebbe potuto sottrarsene. A distanza, mi pare comunque ancora avvertibile una volontà comune a tutti (dai disegnatori ai collaboratori di una parte redazionale senz'altro più informata, viva e stimolante di quella di tante testate che si pubblicano tutt'ora): la consapevolezza cioè di non sentirsi mai del tutto in pace con la propria coscienza, di essere certi di avere sempre qualcosa di meglio da dare.
Dopo Orient Express, gli autori che vi collaboravano non hanno fatto molti passi in avanti, alcuni anzi sono tornati indietro. Le promesse non mantenute dal mercato internazionale hanno fatto sì che qualcuno si sedesse ad aspettare tempi migliori, licenziando di tanto in tanto storie fatte più che altro per incassare assegni. Oggi, mi pare che ci sia meno timore del giudizio e, su tutto, forse aleggia l'errata convinzione di avercela fatta. Il che è vero per quanto riguarda la garanzia di pubblicazioni non sempre remunerative, ma è assolutamente falso se si fanno entrare in gioco il rapporto con i lettori, la coscienza di avere dato sempre il meglio di se stessi, e, soprattutto, la necessità di non sprecare il proprio talento liquidando raccontini scialbi e senza idee, incapaci di avvincere perché privi di personalità.
Per quasi tre anni, Orient Express è stata una fucina dentro la quale andavano raffinandosi potenziali grandi autori. Alcuni lo sono diventati in fretta, altri stanno ancora maturando, altri hanno definitivamente abbassato la guardia. In Italia, all'inizio degli anni Ottanta, c'era bisogno di una rivista formato palestra, dove ci si potesse allenare in assoluta tranquillità, senza l'ansia del risultato. Storicamente, Orient Express ha assolto quel compito. Peccato che oggi, alla fine di quegli stessi anni Ottanta, nessuno sia stato ancora in grado di predisporre una testata capace di pretendere sempre risultati veri, e non solo insipide esibizioni.
(Luigi Bernardi, da Il fumetto, numero 16, terza serie, settembre 1988)
Intervento messo a disposizione da Luigi Bernardi.
www.luigibernardi.com
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